Quando si parla di benessere si corre il rischio di assecondare mode e ricerca di consenso immediato, perdendolo di vista nella sua dimensione più autentica. Occorrerebbe innanzitutto definire cosa è benessere.
Sono più di 10 anni ormai che il Rapporto della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi alimenta un interessante dibattito sui limiti del Pil e sulle strategie da adottare per superarlo, insegnandoci che il focus del benessere è la persona, che bisogna concentrarsi sul risultato più che sul percorso e che una persona per star bene ha bisogno che si verifichino diverse condizioni, materiali e non materiali.
Dalle raccomandazioni di quel rapporto, passando dal BES in Italia e dai protocolli internazionali OECD e SDG, si è fatta molta strada ed oggi è acclarato che stare bene dipende dal grado di salute, istruzione, lavoro, benessere economico, benessere soggettivo, relazioni sociali e così via.
Cruciale è però il tema delle relazioni tra i diversi capitoli di benessere: ad esempio, è poco utile concentrarsi solo sull’indicatore “lavoro” se poi nelle sue caratteristiche si realizza come lavoro sottopagato, insicuro o che isola il lavoratore da reti sociali. In ultima analisi, la misurazione del benessere non può limitarsi a misurazioni tecniche di indicatori se non chiama in causa i valori di fondo degli individui di una società.
Se, dunque, il benessere non può essere conseguito in maniera parziale, anche la scelta di quali attività progettare e realizzare per il welfare della collettività dovrebbe seguire la medesima logica. In questa luce, piani di welfare che si limitano ad attività “micro” ed a fornire integrazioni al reddito appaiono deboli sotto il profilo dell’utilità complessiva. Bisognerebbe privilegiare piani di welfare complessivi, capaci di incidere su più dimensioni del benessere.
Quando ricordiamo gli imprenditori pionieri del welfare aziendale degli anni del dopoguerra, parliamo di esperienze di intervento sul fronte delle abitazioni, di mense, di colonie, di cultura, ovvero di un investimento complessivo su temi che incidevano sui diversi aspetti della vita. La colonia estiva migliorava la salute dei figli, liberava il tempo dei genitori, consentiva qualità di vita migliore, aumentava la capacità di relazione dei bambini e così via.
Difficile, oggi, poter dire lo stesso di alcuni progetti di welfare e per questo è bene aprire una schietta discussione su quale welfare si intende attuare, a partire dai presupposti teorici per arrivare alla misurabilità dell’efficacia in termini di benessere complessivo. Se tutto diventa welfare, il welfare perde in riconoscibilità e questo effetto non è certo incoraggiante per i soggetti coinvolti nell’ambiziosa sfida dello stare bene.
Oggi che in Italia le trasformazioni demografiche e familiari evidenziano molte sfide da affrontare (dati Istat): il calo della natalità (1,3 figli per donna), l’aumento del numero delle famiglie conseguenza di un loro netto ridimensionamento (33,2% coppie con figli, 20,1% coppie senza figli, 33% famiglie unipersonali), l’accentuazione delle famiglie in cui i figli nonostante siano adulti restano a vivere con i genitori fino a oltre i 32 anni, l’aumento delle separazioni e dei divorzi, la precarietà economica di molte fasce di popolazione, lo strapiombo temporale tra la fine del lavoro e l’inizio della pensione della classe dei 55-64enni, l’invecchiamento della popolazione che si accompagna all’aumento della non autosufficienza (quasi 3 milioni di persone non autosufficienti e 600.000 ammalati di Alzheimer), oggi più che mai, dunque, è richiesta una lettura adeguata dei bisogni delle persone e un supporto complessivo sia di protezione che di prevenzione dei futuri disagi economici.
A questo risponde, tra l’altro, l’educazione finanziaria di qualità, che offre percorsi di accompagnamento individuale per stabilizzare l’economia familiare, un argomento che andremo ad approfondire in successivi articoli.
di Sergio Sorgi, Presidente eQwa